'nu giardinu da "Il Guado"
"C'è nu giardinu ammenzu di lu mari, tuttu 'ntissutu di aranci e ciuri..."
La baia di Giardini Naxos, Taormina e il suo stupendo Teatro Greco e, sullo sfondo, l'Etna. |
Da Cap.8 "Kaos"
(Scena: Fra le colline di Tremona, Ticino, Svizzera. Personaggi: Sebastian mentre corre sotto la pioggia)
Tremona era bellissima quando, di tanto in tanto, si lasciava scoprire dalle nuvole basse.
La pioggia fine sulle tegole color ocra, il fumo dei camini immobile e stratificato sulle case strette gomito a gomito, e la nebbia che copriva e scopriva l’antico campanile romanico gli riscaldavano la mente e il cuore.
“Assuppa viddanu” pensò mentre correva bagnato fradicio sotto la pioggia, con Tremona sdraiata a mezzacosta qualche centinaio di metri più in giù.
“Assuppa viddanu” ripetè: la pioggia leggera e innocua che ogni contadino siciliano chiede al cielo. Era partito all’alba da Meride, un gioiello d’altri tempi. Cento passi di corsa e cento di marcia l’avevano portato in vetta al monte San Giorgio in meno di un’ora. Attraversando le terre dove duecento milioni di anni prima avevano vissuto dinosauri e altre creature estinte pensò a come la vita possa apparire tanto effimera quando la si confronta con le profondità del tempo. Di fronte a duecento milioni di anni carriera, preoccupazioni, fortuna, sfortuna, ripicche, successi e insuccessi vestono, semplicemente, altri colori.
“Solo dei buoni figli e un buon ricordo di sé, cioè futuro e passato, sono le sole cose che val la pena di lasciare su questo mondo” si disse mentre correva a perdifiato su un costone in salita.
Era zuppo fradicio e si sentiva in perfetta forma.
I sentieri sterrati, ormai raramente usati, costeggiavano boschi e campi ben curati, panchine solide, cartelli puliti piazzati al posto giusto. Pulizia ovunque, niente rifiuti, attenzione per i dettagli, nessuna scritta becera a imbrattare e imbruttire.
Quella terra era figlia della propria gente, non viceversa.
Sembrava una bambina in fasce accudita con amorevole cura.
Rifletteva lo spirito di appartenenza, di responsabilità, il buon senso, l’amore per le cose comuni, quotidiane, il rispetto per quanto ereditato e da restituire.
Si sentiva profondamente legato a quella terra. Era la terra della mente.
Com’era diversa dalla Sicilia.
La Sicilia di abbagliante bellezza accecata da fatalismo, abbandono e rassegnazione.
Cosa avrebbe pagato perché anch’essa potesse diventare, un giorno, figlia della sua gente.
“La Storia è tatuata nell’anima della gente” pensò mentre attraversava il guado a valle del vecchio mulino “…si raccoglie sempre un po’ di quel che si semina e un po’ di quel che la Fortuna ci manda”.
Si fermò a riprendere fiato, era arrivato a un crocevia da cui si dipartivano tre sentieri. Sollevò il viso alla pioggia, chiuse gli occhi e aprì le braccia come a ringraziare Dio per averlo fatto nascere e averlo tenuto ancora in vita.
Conosceva quei boschi come le sue tasche. Restando a occhi chiusi girò lo sguardo, in successione, verso i due punti, ben riparati, da cui sapeva che un qualsiasi cecchino avrebbe potuto facilmente abbatterlo.
Respirò a fondo, era tranquillo.
In quella seconda vita che si era costruito, anno dopo anno, con la pazienza di un ragno, non c’era violenza, non voleva violenza.
Ce n’era già abbastanza nella sua prima vita.
Era rientrato in Ticino per una settimana, una sola settimana.
Aveva annullato impegni e stravolto l’agenda per poter andare a pescare con un bambino e cercare di spiegargli perché Dio ha la barba bianca.
Le anime fetide a cui aveva deciso di togliere la vita avrebbero dovuto aspettare il suo ritorno. Avrebbero dovuto aspettare le risposte che lui doveva a un bambino... "
(Scena: Fra le colline di Tremona, Ticino, Svizzera. Personaggi: Sebastian mentre corre sotto la pioggia)
Tremona era bellissima quando, di tanto in tanto, si lasciava scoprire dalle nuvole basse.
La pioggia fine sulle tegole color ocra, il fumo dei camini immobile e stratificato sulle case strette gomito a gomito, e la nebbia che copriva e scopriva l’antico campanile romanico gli riscaldavano la mente e il cuore.
“Assuppa viddanu” pensò mentre correva bagnato fradicio sotto la pioggia, con Tremona sdraiata a mezzacosta qualche centinaio di metri più in giù.
“Assuppa viddanu” ripetè: la pioggia leggera e innocua che ogni contadino siciliano chiede al cielo. Era partito all’alba da Meride, un gioiello d’altri tempi. Cento passi di corsa e cento di marcia l’avevano portato in vetta al monte San Giorgio in meno di un’ora. Attraversando le terre dove duecento milioni di anni prima avevano vissuto dinosauri e altre creature estinte pensò a come la vita possa apparire tanto effimera quando la si confronta con le profondità del tempo. Di fronte a duecento milioni di anni carriera, preoccupazioni, fortuna, sfortuna, ripicche, successi e insuccessi vestono, semplicemente, altri colori.
“Solo dei buoni figli e un buon ricordo di sé, cioè futuro e passato, sono le sole cose che val la pena di lasciare su questo mondo” si disse mentre correva a perdifiato su un costone in salita.
Era zuppo fradicio e si sentiva in perfetta forma.
I sentieri sterrati, ormai raramente usati, costeggiavano boschi e campi ben curati, panchine solide, cartelli puliti piazzati al posto giusto. Pulizia ovunque, niente rifiuti, attenzione per i dettagli, nessuna scritta becera a imbrattare e imbruttire.
Quella terra era figlia della propria gente, non viceversa.
Sembrava una bambina in fasce accudita con amorevole cura.
Rifletteva lo spirito di appartenenza, di responsabilità, il buon senso, l’amore per le cose comuni, quotidiane, il rispetto per quanto ereditato e da restituire.
Si sentiva profondamente legato a quella terra. Era la terra della mente.
Com’era diversa dalla Sicilia.
La Sicilia di abbagliante bellezza accecata da fatalismo, abbandono e rassegnazione.
Cosa avrebbe pagato perché anch’essa potesse diventare, un giorno, figlia della sua gente.
“La Storia è tatuata nell’anima della gente” pensò mentre attraversava il guado a valle del vecchio mulino “…si raccoglie sempre un po’ di quel che si semina e un po’ di quel che la Fortuna ci manda”.
Si fermò a riprendere fiato, era arrivato a un crocevia da cui si dipartivano tre sentieri. Sollevò il viso alla pioggia, chiuse gli occhi e aprì le braccia come a ringraziare Dio per averlo fatto nascere e averlo tenuto ancora in vita.
Conosceva quei boschi come le sue tasche. Restando a occhi chiusi girò lo sguardo, in successione, verso i due punti, ben riparati, da cui sapeva che un qualsiasi cecchino avrebbe potuto facilmente abbatterlo.
Respirò a fondo, era tranquillo.
In quella seconda vita che si era costruito, anno dopo anno, con la pazienza di un ragno, non c’era violenza, non voleva violenza.
Ce n’era già abbastanza nella sua prima vita.
Era rientrato in Ticino per una settimana, una sola settimana.
Aveva annullato impegni e stravolto l’agenda per poter andare a pescare con un bambino e cercare di spiegargli perché Dio ha la barba bianca.
Le anime fetide a cui aveva deciso di togliere la vita avrebbero dovuto aspettare il suo ritorno. Avrebbero dovuto aspettare le risposte che lui doveva a un bambino... "
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