Sembra scritta oggi, calza perfettamente con i fatti di oggi, ma è vecchia di sette secoli, è stata scritta verso il 1320.
«Ahi serva Italia»: appassionata sferzata di Dante.
La
grandezza dell’Italia nel passato e la penosa situazione che ha sotto
gli occhi portano Dante Alighieri a una violenta invettiva contro il Bel
Paese. Nel canto VI del Purgatorio, l’affettuoso incontro di
due concittadini mantovani, Sordello e Virgilio, suscita in Dante una
amara e spietata apostrofe contro l’Italia del suo tempo, terra di
tiranni, di dolore e di malcostume, simile a una nave senza capitano nel
mare in tempesta. Gli abitanti di una stessa città si odiano e si
dilaniano e non c’è pace in nessuna zona. L’opera dell’imperatore
Giustiniano, che aveva dato adeguate leggi all’Italia, risulta inutile,
perché le leggi non vengono fatte rispettare. Gli ecclesiastici, invece
di dedicarsi alle cose sacre, si appropriano del potere laico, in
mancanza dell’autorità politica voluta da Dio stesso per tenere a freno
l’Italia, simile a una cavalla selvaggia ...
Manca l’autorità imperiale, perché
Rodolfo d’Asburgo e suo figlio Alberto non si interessano dell’Italia,
giardino dell’Impero. Dante invita quindi il loro successore, Enrico VII
di Lussemburgo, a venire a vedere la discordia che regna in Italia, un
paese che, come una sposa abbandonata, lo attende piangendo notte e
giorno. Sembra che anche Cristo l’abbia dimenticata, forse per un bene
maggiore futuro. L’invettiva contro l’Italia si conclude con una ironica
sferzata a Firenze, che fa leggi che non durano da ottobre a novembre.
La sferzata all’Italia nasce da uno sconfinato amore del poeta fiorentino per quello che proprio lui ha definito Il Bel Paese.
“Che Dante non amasse l’Italia – spiega Ugo Foscolo – chi mai vorrà
dirlo? Anch'ei fu costretto, come qualunque altro l'ha mai veracemente
amata, o mai l'amerà, a flagellarla a sangue, e mostrarle tutta la sua
nudità, sì che ne senta vergogna. (da Discorso sul testo del poema di Dante).
L’Italia (umile) sognata da Dante ha un modello: Camilla, la leggendaria vergine guerriera, di cui parla il libro XI dell’Eneide
di Virgilio. Camilla rievoca le amazzoni Ippolita e Pentesilea,
Giuturna la sorella di Turno amata da un dio, la saracena Clorinda, la
pulzella d’Orleans Santa Giovanna d’Arco. Emula di Diana, alla quale il
padre la consacrò ancora in fasce, Camilla rappresenta il popolo italico
che lotta per la propria libertà e Dante le rende onore nella Divina Commedia, ricordandola come la prima martire per la libertà della nostra patria: di quell’umile Italia fia salute / per cui morì la vergine Cammilla” (Inferno, canto I, 106-107). (F.d'A.)
Ma vediamo l’appassionata sferzata dantesca nel Purgatorio.
PURGATORIO
Canto VI - versi 76-151
Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello!
Quell'anima gentil fu così presta,
sol per lo dolce suon de la sua terra,
di fare al cittadin suo quivi festa;
e ora in te non stanno sanza guerra
li vivi tuoi, e l'un l'altro si rode
di quei ch'un muro e una fossa serra.
Cerca, misera, intorno da le prode
le tue marine, e poi ti guarda in seno,
s'alcuna parte in te di pace gode.
Che val perché ti racconciasse il freno
Iustiniano, se la sella è vota?
Sanz'esso fora la vergogna meno.
Ahi gente che dovresti esser devota,
e lasciar seder Cesare in la sella,
se bene intendi ciò che Dio ti nota,
guarda come esta fiera è fatta fella
per non esser corretta da li sproni,
poi che ponesti mano a la predella.
O Alberto tedesco ch'abbandoni
costei ch'è fatta indomita e selvaggia,
e dovresti inforcar li suoi arcioni,
giusto giudicio da le stelle caggia
sovra 'l tuo sangue, e sia novo e aperto,
tal che 'l tuo successor temenza n'aggia!
Ch'avete tu e 'l tuo padre sofferto,
per cupidigia di costà distretti,
che 'l giardin de lo 'mperio sia diserto.
Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,
Monaldi e Filippeschi, uom sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura
d'i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com'è oscura!
Vieni a veder la tua Roma che piagne
vedova e sola, e dì e notte chiama:
«Cesare mio, perché non m'accompagne?».
Vieni a veder la gente quanto s'ama!
e se nulla di noi pietà ti move,
a vergognar ti vien de la tua fama.
E se licito m'è, o sommo Giove
che fosti in terra per noi crucifisso,
son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
O è preparazion che ne l'abisso
del tuo consiglio fai per alcun bene
in tutto de l'accorger nostro scisso?
Ché le città d'Italia tutte piene
son di tiranni, e un Marcel diventa
ogne villan che parteggiando viene.
Fiorenza mia, ben puoi esser contenta
di questa digression che non ti tocca,
mercé del popol tuo che si argomenta.
Molti han giustizia in cuore, e tardi scocca
per non venir sanza consiglio a l'arco;
ma il popol tuo l'ha in sommo de la bocca.
Molti rifiutan lo comune incarco;
ma il popol tuo solicito risponde
sanza chiamare, e grida: «I' mi sobbarco!».
Or ti fa lieta, ché tu hai ben onde:
tu ricca, tu con pace, e tu con senno!
S'io dico 'l ver, l'effetto nol nasconde.
Atene e Lacedemona, che fenno
l'antiche leggi e furon sì civili,
fecero al viver bene un picciol cenno
verso di te, che fai tanto sottili
provedimenti, ch'a mezzo novembre
non giugne quel che tu d'ottobre fili.
Quante volte, del tempo che rimembre,
legge, moneta, officio e costume
hai tu mutato e rinovate membre!
E se ben ti ricordi e vedi lume,
vedrai te somigliante a quella inferma
che non può trovar posa in su le piume,
ma con dar volta suo dolore scherma